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VELLUTO BLU

di Roy Menarini

Il critico cinematografico Roy Menarini ci racconta Velluto Blu di David Lynch trent'anni dopo.


VELLUTO BLU

30 anni dopo

 

Periodo di grandi anniversari per David Lynch, dal nuovo Twin Peaks che mantiene la promessa di rivedere a un quarto di secolo di distanza le vicende della cittadina più morbosamente zotica dell’America lunatica lynchana fino a questo trentennale molto atteso, per un film che alla lunga si è forse dimostrato il più resistente nella passione cinefila.

Rivedere oggi Velluto blu significa anche domandarsi che cittadinanza avrebbe un film così nel cinema contemporaneo. Non ci facciamo la domanda, peregrina, solamente da un punto di vista produttivo (peraltro, pensare che questo fosse un film MGM-De Laurentiis ribalta molti luoghi comuni sugli anni Ottanta), ma anche da un punto di vista dell’immaginario. Per quanto rizomatico, atomizzato e poco riassumibile sia il cinema degli anni Duemila – dove si passa dal mainstream più globale alla nicchia dell’extreme arthouse cinema – una “botta” come Velluto blu oggi sono in pochi (o forse nessuno) a poterla assestare, a qualsiasi livello si operi.

Ecco perché vale la pena riassaggiarla, questa strana e sinuosa pellicola, capace di momenti sublimi, lirici e disneyani, messi a fianco di esplosioni di sadismo, brutalità e morbosità senza pari. 

Luce e buio 

Velluto blu è il film chiave dell’opera lynchana perché impostato sul confronto tra luce e buio, perversione e innocenza, forze del bene e gorghi maligni. Non è un caso che il film sembri ignorare ogni consiglio professionale sulla messa in scena della notte. Chiunque abbia posseduto una videocassetta di Velluto blu sa bene che era quasi impossibile scorgere quello che accade in numerose sequenze: David Lynch sembrava pensare a una sola fruizione possibile, quella della sala. Del resto, nemmeno su grande schermo lo spettatore si sente sicuro di quello che sta guardando. Il film è pieno di personaggi immersi nel buio, che vediamo solamente quando escono alla (fioca) luce. L’uscita dall’oscurità esprime il valore positivo dei personaggi. Ovviamente Lynch è consapevole del rischio di ingenuità simbolica, per cui trasforma questi elementi di contrapposizione fiabesca e folclorica in strategie di estremizzazione del positivo e del negativo. Quanto più è ripugnante il lato maligno del mondo e di ciò che lo agisce, tanto più è puro il suo contrario: Velluto blu parla esattamente di questo.

Lumberton, la cittadina immaginaria che fa da scenario al film, è rappresentata nelle mani di Lynch con sguardo che è stato definito, un po’ vagamente, iperrealista. In verità, si tratta di una figurazione che sta a metà tra la fotografia contemporanea (influenzata da Lynch, a Velluto blu deve molto per esempio l’opera del fotografo Gregory Crewdson) e la pittura americana degli anni Cinquanta.

Lumberton è America allo stato puro, salvo che Lynch non ragiona come Andy Warhol, che gigantizza e estrae dal flusso della serialità del consumo un’altra serialità di stampo artistico, né – come l’iperrealismo – isola una cabina telefonica o un oggetto per “raffreddarlo” e capovolgerlo senza negarlo. Egli insinua un sospetto di falsificazione all’interno di un mondo che viene percepito come esattamente credibile. Mentre l’iperrealismo tende a dimostrare l’intima falsità dell’impero della merce agendo nel “troppo vero”, Lynch sembra invertire il percorso a segnalare che – almeno per i suoi protagonisti – si è giunti a uno stadio puramente “mentale” del figurativo popolare. In poche parole, dei movimenti artistici americani del dopoguerra dalla pop art all’iperrealismo, Lynch mantiene la capacità di congelare gli aspetti del microcosmo civilizzato statunitense, e in fondo la sua replicabilità attraente e familiare, senza per questo condurre un’interpretazione critica della realtà. Infondendo un atteggiamento di amore e purificazione per la materia del quieto vivere americano – i diners, le strade, i caffè, le ciambelle, i vestiti, le macchine, le case, l’arredamento, etc. –, infatti, Lynch può affiancare il sorprendente lavoro di “detemporalizzazione” dell’ambiente.

Man mano che Lumberton prende vita di fronte ai nostri occhi, infatti, comprendiamo che qualcosa non funziona e non solo perché avvengono cose sgradevoli o perverse. Lumberton è una superficie, tanto che nelle sue pieghe, al microscopio, si trovano orecchie tagliate e violenze oscure, pur tuttavia in Lynch non c’è mai un ribaltamento vero e proprio delle apparenze – nemmeno in Twin Peaks – bensì una giustapposizione, una compresenza stridente dove il male non inonda mai del tutto il bene e il bene non scioglie mai del tutto il male. Le due dimensioni restano a increspare il reale, secondo una visione che si attaglia sorprendentemente alla meditazione trascendentale di cui Lynch diventerà anno dopo anno un testimonial sempre più influente.

Non è un caso che facesse scalpore la dichiarazione del regista secondo cui: “Io e il personaggio di Jeffrey abbiamo parecchie cose in comune (…). Sono cresciuto in un ambiente simile a quello che si vede nel film: la cancellata bianca, le rose, tutto, all'inizio del film, è com’era nella mia infanzia. Come Jeffrey, ho corso nei boschi ed ho avuto le sue stesse curiosità. Inserisco inoltre, in Velluto blu, una serie di esperienze personali. Quando si realizza un film, a partire da un'idea alla quale si tiene molto, ci si mette molto di sé stessi: il meglio ma anche l’altro lato, quello oscuro e perverso”.

Un film di genere?

Il continuo riferirsi di Lynch a elementi intimi, autoriali e primigeni, fa sì che sia difficile anche collocare il film in un genere previsto. È noto che il regista ami in particolare il noir, tanto da averne intinto parecchie delle sue opere in filmografia, ma come al solito si tratta di riferimenti atmosferici, onirici, mai legati al citazionismo cinefilo o alla decostruzione postmoderna – cara in quegli anni ad autori come De Palma, Kasdan  o Demme. Quando Velluto blu fu presentato al festival del film fantastico di Avoriaz, gli appassionati duri e puri protestarono perché non si trattava di cinema legato al soprannaturale o alla fantasia. Sebbene oggi tali distinzioni ci stupiscano – difficile immaginare qualche fan del festival ravennate che si infuria per la presenza di un’opera di Lynch – ciò fa capire come all’altezza degli anni Ottanta la questione dei generi, e la filmografia dell’autore, fossero questioni tutt’altro che pacifiche.

Veniamo a questioni più strutturali. A rivederlo oggi, Velluto blu – per quanto carico di contorsioni e perversioni – ha l’apparenza di un film lineare. Secondo Michel Chion, uno degli esegeti più appassionati del regista americano: “Sotto tutti gli aspetti, Velluto blu è fino a oggi il vero classico di Lynch. Non è un film prototipo come Eraserhead, né un successo più o meno collettivo a cui l'autore ha contribuito con il suo tocco caratteristico come Elephant Man, ma un'opera interamente personale, padroneggiata e conclusa, come non cercheranno più di essere i film successivi, molto più dislocati e asimmetrici. È anche il film in cui insedia il suo universo, e crea una ricetta che potrà servire per tutti i film successivi (anche se cercherà di rinnovarla), un quadro (Lynchtown), uno schema strutturale e un nuovo tipo di romanticismo”. 

La presenza di una narrazione forte, di una storia che non richiede allo spettatore di rompersi il capo in spiegazioni ardite (la fase che va da Strade perdute, attraversa Mulholland Drive e arriva all’estremo con Inland Empire), il volto trasparente e ineffabile di Kyle MacLachlan, lo sfregio simbolico della diva Isabella Rossellini, la morbosa ferocia di Dennis Hopper, le immagini potenti e dense, collocano questo film, insieme al successivo Cuore selvaggio, nel pantheon del Lynch che porta a dialogare sperimentalismo e codici hollywoodiani.

Infine…

Ancora talvolta insopportabile da guardare – per la violenza espressa e per la malignità disgustosa del Frank di Dennis Hopper – Velluto blu fa anche nascere la questione dell’efferatezza di Lynch. Da questo momento in poi alcuni critici (in Italia Irene Bignardi) cominciano a considerarlo un nemico, a declassare le sue provocazioni a puro sensazionalismo per cinefili impressionabili, mentre l’orrore che accade nei suoi film appare a molti (più turbati che davvero indifferenti) un giochino morboso.

In verità, Velluto blu è un film a suo modo “responsabile”. Non mitizza la violenza, non ne attutisce la negatività, non la rende consumabile e socialmente accettabile, non la mostra in maniera spettacolare. Il negativo assoluto del male in Frank è una dichiarazione di onestà assoluta, anche quando sembra il mero bilanciamento del bene oloegrafico mostrato a inizio film. Lo spettatore è messo a dura prova, perché sta osservando emozioni del tutto umane.

E proprio di un David Lynch umanista e affettivamente in sintonia con il mondo bisognerà (paradossalmente) cominciare a parlare dopo aver rivisto Velluto blu.

 

 

Roy Menarini





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