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CHINATOWN

Roman Polanski
1974  USA  130'
Interpreti: Jack Nicholson, Faye Dunaway, John Huston, Roman Polanski

Le tematiche ossessive del regista si palesano anche in questa sua opera: l’acqua, la circolarità, il duellare continuo tra realtà e finzione, la claustrofobia, i rapporti all’interno della coppia, e più in generale tra gli uomini.

Sceneggiatura Robert Towne
Fotografia John A. Alonzo
Montaggio Sam O’Steen
Musiche Jerry Goldsmith
Produzione Paramount Pictures
Distribuzione Paramount Pictures

Premi / Awards: PREMIO OSCAR 1974 (USA) – Miglior Sceneggiatura Originale a Robert Towne; GOLDEN GLOBES 1975 (USA) – Miglior Film, Miglior Regia a Roman Polanski, Miglior Sceneggiatura a Robert Towne, Miglior Attore a Jack Nicholson

Sulle note gelide di un sassofono, scorrono lentamente i titoli di testa; la tromba, tagliente come la lama di un coltello, si accompagna al pianoforte che impasta il tappeto musicale di calda sensualità.   È il jazz sinuoso di Jerry Goldsmith e l’occhio, da subito, si immerge in un’atmosfera ben lontana da quella tipica degli anni in cui è stato girato questo ottavo lungometraggio di Roman Polanski.

 

Siamo a Los Angeles, nel 1937, Jake "J.J." Gittes, detective privato, viene ingaggiato dalla signora Mulwray per investigare sulla presunta infedeltà del marito, Hollis Mulwray, l’ingegnere che dirige il Dipartimento per l’acqua e l’energia elettrica di Los Angeles. Ma qualcosa non torna, perché la donna che si è presentata a Gittes, in realtà non è la vera signora Mulwray, e il detective è stato vittima di un raggiro. Dopo la morte di Hollis Mulwray, ritrovato privo di vita in un canale, Jake inizierà ad indagare su un caso di corruzione pubblica, scoprendo anche una torbida vicenda privata che riguarda Evelyn, la vera signora Mulwray.

Si dipana lentamente la materia filmica di quest’opera polanskiana, che è, al contempo, rilettura del Noir più classico, con i suoi topoi e le caratterizzazioni del genere, e assorta riflessione sull’ineluttabilità della vita. La minuziosa ricostruzione delle ambientazioni, tipicamente anni ’40, e la fotografia di John Alonzo, densa e pastosa, virata sui toni del seppia, contribuiscono alla creazione di una sognante atmosfera vintage. Gli interni angusti, illuminati da calde luci soffuse, alternati a notturni neri vinilici, si accendono di barlumi orizzontali e spot sui visi dei protagonisti; la regia di Polanski è pulita, concentrata in campi stretti, vicina ai corpi degli attori anche quando la vicenda si trasferisce in esterni. L’occhio del regista indugia sul rapporto tra uomo e donna, ma soprattutto sulle complicate strutture dell’animo umano; le immagini sono rigide e trasmettono dolore e tensione emotiva, la mdp è ferma, fissa l’immagine come un occhio che non vuole distogliere la propria attenzione, in uno spazio dilatato da un campo medio, soffermandosi ora sul paesaggio ora sui personaggi.

Il regista polacco intesse la splendida struttura narrativa, che poggia la sua solida base sulla sceneggiatura di Robert Towne, impreziosendola con la prova attoriale dei tre protagonisti. Faye Dunaway, intensa, misteriosa e struggente, è una femme fatale che custodisce gelosamente un mistero torbido e scabroso, una macchia nera immersa nel verde della sua iride, ma allo stesso tempo tenera nella sua fragilità di donna ferita. Complice del successo dell’opera è la presenza sulla scena di un feroce John Huston, considerato, giustamente, il padre del Noir americano, che ha dato ufficialmente vita al genere con The Maltese Falcon - Il mistero del falco, nel 1941; il suo Noah Cross è un vecchio cinico e dall’animo corrotto, costantemente ansioso di accumulare soldi e potere al solo fine, a suo dire, di comprarsi il futuro.

Jack Nicholson offre un’interpretazione che lo assicura tra i migliori eredi del chandleriano Philip Marlowe; detective dalla personalità sfaccettata, dal ghigno sprezzante e meno mefistofelico del solito, il suo Gittes cresce durante la narrazione filmica sino a crollare nel finale caustico, un epilogo pervaso da un nichilismo cupo, che non lascia speranze e possibilità di redenzione, al cospetto di una società marcia in ogni sua spira, avviluppata nel torbido che essa stessa imbastisce. Ognuno è complice di un’opera maestosa che è valsa a Polanski, nel 1975, l’Oscar per la sceneggiatura, undici nominations e quattro Golden Globe (film, regia, attore protagonista e sceneggiatura).

Chinatown è il primo lungometraggio girato dal regista polacco dopo la straziante perdita di Sharon Tate. Si respira, come un fiume che scorre in sottofondo, durante lo svolgersi della matassa filmica, il dolore di vivere, l’impossibilità di porre un limite alla parte oscura dell’uomo, ma soprattutto, l’incapacità di frenare la mano della follia di quell’umanità dall’animo corrotto dalla malvagità.

Formatosi presso la Scuola nazionale di cinema di Lodz, che ha preparato un’intera generazione di cineasti come Andrzej Wajda, Jerzy Skolimowski, Krysztof Zanussi, Polanski non indugia, al contrario di quanto fatto dai registi polacchi di quegli anni, come Wajda nel film Cenere e Diamanti (Papiol i diament, 1958), nella messa in scena dell’impegno civile e politico; invece che al realismo predilige rivolgere il proprio sguardo alle dinamiche psicologiche tra gli uomini, in particolare ai rapporti uomo/donna, elemento costante della sua cinematografia.

Seppur mantenga un approccio strutturale dallo stile rigoroso ed impeccabile, questo lungometraggio di Polanski è uno splendido esempio postmodernista, un eccellente omaggio/rivisitazione del cinema hollywoodiano Noir degli anni quaranta e cinquanta. Il linguaggio del regista resta comunque estremamente personale e al centro dell’analisi polanskiana, invece che le classiche atmosfere algide e tenebrose, restano l’ipocrisia e le menzogne delle relazioni personali: la realtà e la verità restano escluse dalle dinamiche umane. 

Le tematiche ossessive del regista si palesano anche in questa sua opera: l’acqua, la circolarità, il duellare continuo tra realtà e finzione, la claustrofobia, i rapporti all’interno della coppia, e più in generale tra gli uomini. Gli spazi in Chinatown sono sempre più ridotti, la mdp si avvicina al corpo attoriale, divenendone parte essa stessa; emblematica la scena finale, in una mise-en-scène in esterno, l’occhio dello spettatore si stringe ai corpi, nella tragicità, quasi sofoclea, della tragedia umana, in cui la salvezza appartiene a chi detiene il potere, alla società in putrefazione che genera mostri e non rimane che arrendersi, atterriti e sgomenti, “Lascia stare, Jake, è Chinatown”.

 

Mariangela Sansone

 

 


Roman Polanski

Born in Paris to Polish parents, he moved with his family back to Poland in 1937, shortly before the outbreak of World War II. He survived the holocaust, was educated in Poland and became a director of both art house and commercial films.

Polanski's first feature film, Knife in the Water (1962), made in Poland, was nominated for an Academy Award for Best Foreign Language Film. He has since received five more Oscar nominations, along with two Baftas, four Césars, a Gloden Globe and the Palme d'Or of Cannes Film Festival in France. In the United Kingdom he directed three films, beginning with Repulsion (1965). In 1968 he moved to the United States and cemented his status by directing the horror film Rosemary's Baby (1968), for which Ruth Gordon won an Academy Award as Best Supporting Actress.

Following the murder of his wife, Sharon Tate, in 1969, Polanski returned to Europe and spent much of his time in Paris and Gstaad, but didn't direct another film until Macbeth (1971) in England. The following year he went to Italy to make What? (1973) and spent the next five years living near Rome. However, he travelled to Hollywood to direct Chinatown (1974). The film was nominated for eleven Academy Awards, and was a critical and box-office success. Polanski's next film, The Tenant (1976), was shot in France, and completed the "Apartment Trilogy", following Repulsion and Rosemary's Baby.

After Tess (1979), which was awarded several Oscars and Cesars, his work in 1980s and 1990s became intermittent. It wasn't until The Pianist (2002), a World War II true story drama about Jewish – Polish musician, Wladyslaw Szpilma, that Polanski came back to full form. The film won three Academy Awards including Best Director, along with numerous international awards. He also directed other films, including Oliver Twist (2005), a story which parallels his own life as a "young boy attempting to triumph over adversity”. In 2009 he received a lifetime-achievement award from the Zurich Film Festival and in 2011 won Best Director at the 60th Berlin International Film Festival for Carnage. He was awarded Best Director for The Ghost Writer (2010) at the 23rd European Film Awards that year.

 

 

 





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